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Le cattedrali del lavoro

  • Gianni Spartà
  • 27/09/2020
  • 0

Mostra a Velate

C’è modo e modo di raccontare i monumenti industriali che popolano il Nord Ovest d’Italia. Uno risiede nella consultazione dei bilanci certificati, con particolare riguardo all’ultima cifra in basso a destra. Un altro è l’analisi dell’evoluzione strategica di prodotti e mercati. Poi ce n’è un terzo che consiste nell’incontro ravvicinato e nella conoscenza affidata all’occhio del visitatore esterno, affascinato dai prodigi dell’homo faber e intenzionato a svelarne il mistero. Infine ce n’è un quarto: affidarsi al  grimaldello dell’arte. Quanti pittori l’hanno utilizzato per immortalare intrecci di tubature, capannoni che i vecchi imprenditori non hanno solo edificato, li hanno pure abbelliti con fregi, lesene, decorazioni. S’usava così un tempo: la fabbrica doveva durare e dunque essere bella, capace di saziare il gusto estetico. C’è una mostra in questi giorni nel cosiddetto Battistero di Velate, una cappella di fianco alla chiesa parrocchiale, nella quale una brava curatrice, Carla Tocchetti, ha radunato tele di Vincenzo Morlotti la cui ispirazione ha privilegiato in un certo periodo il tema della fabbrica. Guardandosi attorno da queste parti, egli ha cominciato da casa sua, Laveno Mombello, dove c’era una volta uno dei più bei siti produttivi di ceramiche, oggi museo. Ne ha colto gli angoli più si significativi per l’occhio di un pittore. Poi è andato a Caravate dove sorge un cementificio che nessuno, soprattutto se sensibile ai temi del paesaggio, definirebbe affascinante. Per la serie ecomostri, nel cuore della Valcuvia è stato piantata una creatura deforme che allunga le sue braccia verso il cielo. Un pugno nell’occhio. Ma quello del pittore ha filtri speciali e nei quadri esposti a Velate il cementificio, visto da lontano, sembra una moschea con cupole e minareti, l’incrocio di forni e condotte appare come l’intestino di un organismo vivente, mastodontico, misterioso. La fa da padrona nell’esposizione la fabbrica della birra della Valganna, territorio di Induno, una volta di proprietà dei Poretti (marchio rilanciato alla grande), oggi della multinazionale Carlsberg. Qui non c’è stato bisogno di immaginare, lo stabilimento è un bene artistico di per sé, raro esempio del miglior liberty impiegato nell’industria. Ma il punto di vista di Morlotti, la scelta del particolare, hanno messo in un trittico di grandi tele raffigurazioni di notevole presa sull’osservatore. La mostra si chiama Archeovisioni. E’ un invito, tra l’altro, a riflettere su quanto ci ha circondato e ancora ci circonda anche se con qualche patema diffuso dal momento disgraziato (Covid) e dalle metamorfosi dell’economia (globalizzazione). E tuttavia ci sono sempre gli operai, i dirigenti, i progettisti e ci sono ancora, ci saranno sempre,  per fortuna, gli opifici, le officine, i magazzini. A queste latitudini i beni culturali sono più rari che in Umbria, in Toscana, in Sicilia. Le nostre cattedrali sono le fabbriche: me lo disse negli anni ’70 il mio primo direttore, Mario Lodi, mandandomi a visitarle e a raccontarle. Quel senso di devozione, entrando in un luogo dove c’erano tanti Cipputi con le mani nel rotore di un elicottero o strette attorno a grandi tenaglie che spostavano blocchi d’acciaio incandescenti, quelle immagini, dicevo, mi sono rimaste dentro. Quando varco la soglia di una fabbrica tradizionale, mi viene l’istinto di togliermi il cappello in senso di  rispetto. La fabbrica è necessaria come il pane e solenne come una basilica. Gli artisti come Morlotti lo hanno capito. Alle nuove generazioni bisognerà insegnarlo. Se non altro come storia da tenere a mente. Non è che tutto è cominciato dopo internet.     

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