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L’ultimo Guttuso

  • Gianni Spartà
  • 08/08/2025
  • 0

Villa Cattolica

“Nella stanza le donne vanno e vengono parlando di Michelangelo”: chissà perché Renato Guttuso ho scelto questa frase di una poesia di Eliot per dare un nome a un  quadro maestoso, d’enorme potenza erotica, che mi sta di fronte in una sala di Villa Cattolica a Bagheria, città natale del maestro? Non può essere dileggio né volontà di ritrarre creature superficiali: fingono di ammirare l’arte classica solo per apparire, mostrarsi, provocare i sensi. Non è così, sarebbe meschino. L’opera è incompiuta, Guttuso cominciò a dipingerla nel 1986, era malato, gli restava poco: sarebbe morto il 14 gennaio del 1987. Sentendo avvicinarsi l’inverno dello spirito, ne individuò l’antidoto in quelle forme nude e Michelangelo gli serviva a proclamare che la bellezza sopravvive all’agonia. Lui pensava alla sua. Stando ad autorevoli testimoni tra i quali Giulio Andreotti e monsignor Pasquale Macchi giorno dopo giorno scopriva la fede. Non sono un critico autorizzato, però quel 1986 segnò una svolta: per la prima estate Guttuso disertò il suo abituale rifugio di Velate che gli dava pace, concentrazione, ispirazione, mentre la “…Sicilia chiassosa con le sue distrazioni, le sue voci, mi distraeva”, diceva. Ho un ricordo personale che risale all’anno prima: andai a trovare il maestro e dietro di lui c’era “Bosco d’amore”, un quadro di eguale impatto emotivo, dove donne solitarie non parlavano di Michelangelo ma si mescolavano ad alberi e cespugli accompagnate dai loro amanti. Scambio opinioni con una brava guida nel museo di Bagheria. Fa domande sul Guttuso varesino, si sorprende quando le dico che “Vucciria”, l’opera magna custodita nel rettorato dell’università di Palermo, vide la luce a Velate e che per abbozzarla col carboncino il maestro si fece portare nell’atelier un quarto di bue da issare a mezz’aria con un argano e mettere in primo piano nel ritratto del mercato palermitano.  Il discorso cade  “Spes contra Spem”. Quante illazioni sull’identità delle armoniose terga di una donna che spalanca le persiane nella villa velatese. Una certezza: non erano della contessa Marta Marzotto, ma di una modella varesina. La Marzotto invece è assai presente nelle opere di Villa Cattolica, bella residenza del ‘700 nel cui giardino troneggia la tomba di Guttuso, un enorme cilindro di marmo azzurro, opera di Manzù. L’amore di Renato per Varese resta scolpito in un’intervista alla Prealpina (1985) mentre non si placavano le polemiche per la “Fuga in Egitto”alla Terza Cappella del Sacro Monte, bollata di eresia: “Mi hanno fatto diventare varesino e cattolico. Io resto laico e siciliano anche se mi fa piacere la cittadinanza onoraria di un luogo che amo, nel quale ho dipinto il meglio e dove vorrei che dopo la mia morte restasse qualcosa di me”. Il maestro desiderava che a Velate, palcoscenico dei suoi incontri con l’intellighenzia dell’epoca (Peppino De Filippo, Gian Maria Volonté, Pablo Neruda, anche Audrey Hepburn), il visitatore potesse imbattersi nei segni di una carriera strepitosa e di un’arte più apprezzata dai collezionisti che dalla critica.  Non ci fosse stato lo “scandalo” voluto da monsignor Macchi e materializzatosi nel San Giuseppe con la faccia di Arafat raffigurato alla Terza Cappella, nulla di permanente avremmo di Guttuso a Varese. Dove però negli ultimi anni la sua figura è stata degnamente celebrata da due mostre. Che a Bagheria apprezzato e hanno invidiato   

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Velate Vucciria

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