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Il Prof fatto in casa

  • Gianni Spartà
  • 18/11/2019
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Il 15 gennaio del 1973 potrebbe essere un giorno qualunque se il Sant’Antonio di marmo che troneggia a Varese davanti alla chiesa della Motta non si fosse svegliato con la barba bianca di neve. Fa freddo, è la vigilia del secolare falò, c’è l’atmosfera di festa che l’antica sagra popolare accende prodigiosamente una volta l’anno in una città restia a esibirsi, i venditori di torrone e di “pesitt” interrogano il cielo color piombo sperando per l’indomani nel ritorno del bel tempo. Ma a dare alla giornata una rilevanza storica provvede ben altro. Alle 9,15 in un reparto in un seminterrato del reparto di Geriatria all’ospedale di Circolo il primario Delfino Barbieri sta parlando a una ventina di studenti del quarto anno della facoltà di Medicina e Chirurgia gemmati dall’università di Pavia. E’ la prima lezione, materia Patologia medica. In un altro padiglione poco distante stessa scena: insegnamento di Clinica chirurgica, allievi del quinto e steso anno. Barbieri è un medico di grande umanità. Ricordando ai ragazzi che ha davanti Scipione Riva Rocci e Luigi Ponticaccia, egli riassume la storia di un ospedale che imprevedibilmente si appresta a diventare universitario. E gli studenti, pochi in giacca e cravatta, per lo più chiusi in maglioni stile dottor Zivago che s’usavano all’epoca,sanno di essere protagonisti di un momento solenne. I corsi non hanno ancora fissa dimora, si svolgono dove capita. La segreteria di quello che diventerà solo nel 1998, al termine di un sofferto travaglio, ateneo autonomo, sta nella bella villa appartenuta al tenore Francesco Tamagno. Lì s’è ricavato un ufficio il coordinatore mandato da Pavia per avviare, secondo alcuni, un esperimento azzardato. Negli anni ’70 gli atenei metropolitani sono affollati, vi si respirano ancora le molecole della contestazione sessantottina, la sfida appare improba ma ci hanno creduto il presidente del Circolo, Giovanni Valcavi, il sindaco e il presidente della Provincia di allora, Mario Ossola e Fausto Franchi, naturalmente il rettore dell’ateneo pavese, Antonio Fornari. E ci ha creduto un manipolo di studenti varesini e comaschi accettandola, questa sfida, e trasferendosi da Milano e Pavia per proseguire l’avventura accademica in un luogo di grandi tradizioni cliniche dove c’è spazio sicuro per imparare, soprattutto per seguire i malati nelle corsie. Di questa generazione di camici bianchi chiamati per sorte a collaudare nella loro città i servizi diun ateneo nascente, ha fatto parte Aldo Macchi, scomparso a 66 anni lo scorso 10 novembre. La storia di questo medico ospedaliero che diventa uno dei primi professori “fatti in casa”, spiega come l’università abbia offerto a quanti avevano talento e intuito, una grande occasione per affermarsi e radicare risorse culturali nel territorio. Erano tempi diversi, anche se non è vero nemmeno oggi che i cervelli debbano necessariamente fuggire all’estero. Macchi,riservato come un varesino, efficiente come un giapponese, diventa docente associato seguendo la scia del maestro, Giorgio Nidoli, poi conquista la cattedra di ordinario e crea a sua volta una scuola di Odontoiatria e Odontostomatologia che ha fama internazionale. Un suo collega, Angelo Tagliabue, è l’attuale rettore dell’Insubria. Le parole e i volti di quanti affollavano la chiesa di Velate alle esequie del Prof dicono che la sua semina è stata preziosa.

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