Goodbye Vietnam
- Gianni Spartà
- 03/05/2025
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Boat people, orgoglio italiano
Quella mattina del 30 aprile 1975 il ragazzo americano che amava i Beatles e i Rolling Stones smise di sparare ai vietcong. Sono passati 50 anni, l’amico Gigi appena tornato da Hanoi mi racconta che lì fanno festa, neanche troppa in verità: la globalizzazione si è mangiata il comunismo di Ho Chi Min, si fatica a trovare una maglietta evocativa della bambina nuda in fuga dalle vampate del napalm, per i turisti è più facile imbattersi negli store di Hermes e di Prada. Sui media occidentali scarso rilievo all’evento. Ma quelli della mia generazione bon dimenticano la foto dell’elicottero sul quale monta l’ultimo marine con la bandiera a stelle e strisce piegata e infilata in una sacca. Decollo dal tetto dell’ambasciata di Saigon e via di corsa. E’ un segnale al mondo: la guerra sporca è finita (stimati tre milioni di morti, 58mila americani), Saigon è nelle mani dei vietnamiti del Nord, gli Usa incassano una sconfitta amara. La prima. Anni dopo ci sarà il bis con la fuga dall’Afghanistan. Perché parlarne nella pagina delle Nostre Storie? Perché di quanto sarebbe accaduto dopo - l’inizio della feroce rieducazione comunista, le fosse comuni, le torture, le bande di khmer rossi a caccia di nemici della rivoluzione - è stato testimone indiretto il varesino Giuseppe Zamberletti (Zorro), coordinatore della celebre operazione Boat People. Pressato dalla Conferenza episcopale il presidente del Consiglio Giulio Andreotti invia tre navi della nostra Marina. Partono da Taranto nel 1979, arrivano nel Mar Giallo, salvano un migliaio di vietnamiti in fuga dall’inferno. Galleggiavano da mesi su barcacce con la scritta SOS su stive e vele stracciate; erano vecchi, donne, bambini, nessuno faceva una piega né la Francia delle colonie né gli Stati Uniti invasori. Si mosse la piccola Italia sfidando i fragili equilibrismi delle diplomazie dell’epoca. Quando Musk vuole darci lezioni di civiltà e democrazia, dovremmo fargli trovare sulle Tesla le immagini di Cefalonia, dove novemila soldati dopo l’8 Settembre scelsero la morte pur di non consegnarsi ai nazisti, e quelle del salvataggio di larve vietnamite issate sulle navi Vittorio Veneto, Andrea Doria, Stromboli, curate, sfamate, rivestite, in qualche caso operate d’urgenza a bordo e portate in Italia. Una volta facevamo queste cose. Trasformavamo navi da guerra in centri d’accoglienza, in ospedali, in luoghi di compassione, non davanti a Lampedusa, ma nel Golfo del Siam confinante col Mar della Cina meridionale. Dodici giorni di navigazione per andare, altrettanti per tornare. Francia e Germania si mostrarono titubanti: non potevano ignorare che il muro di Berlino era ancora in piedi con i suoi delicati equilibri. Zamberletti era deputato semplice, non aveva incarichi a Palazzo Chigi. Si era appena lasciato alle spalle l’esperienza del terremoto in Friuli: “Facemmo armare le tre navi nel porto di Taranto. Partimmo accompagnati dall’entusiasmo di Andreotti, che mi salutò così: dai Giuseppe Zorro, questa è una meravigliosa mattata. Quando si dice che era uomo dalle infinite e sfibranti mediazioni, non si afferma il vero. Secondo me Giulio era uno che all’occorrenza sapeva decidere rapidamente. Un’operazione come quella in Vietnam solo lui poteva accettarla. Quando gliela proposi pensavo che l’avrebbe bocciata. Invece partimmo”. La missione di pace in un teatro di guerra, con i profughi vietnamiti respinti da tutte i Paesi confinanti con la loro terra, si concluse a fine luglio. Il 2 agosto cominciò il rientro in Italia, a Venezia. Dove quei mille profughi s’integrarono: oggi li chiameremmo immigrati. Alcuni scelsero il nostro Paese come definitiva patria d’adozione.