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Il tuffo di Bobo nel mare di Gheddafi

  • Gianni Spartà
  • 23/11/2022
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Addio a Maroni

Quando frequenti un quasi coetaneo da quindici anni, gli dai del tu anche se lo hanno appena nominato ministro dell’Interno: “Ragazzo, ma ti rendi conto che da domani avrai signoria su almeno cento prefetti e duecentomila poliziotti?”. E lui dalla sua casa di Lozza. “Quando il gioco si fa duro, i duri scendono in campo. Ciao, vado giurare”.  Detto tutto su Roberto Maroni che sapeva non prendersi sul serio, pur considerando la politica una cosa da non scrivere con la “p” minuscola. Ma è niente rispetto a quanto accadde qualche mese dopo questa domanda che in quella primavera del 1994 faceva tremare le gambe a me, inguaribile emotivo, non a lui, freddo ottimista. Insediato al Viminale, dove a volte si toglieva lo sfizio di telefonare alzando le gambe dove appoggiava le mani Alcide De Gasperi, lo chiamò il sindaco di Lampedusa non ancora affacciata sul più grande ossario del mare nostro. Lamentava l’abbandono dei poteri centrali e soprattutto la mancanza d’acqua: “Non qui isolati e con i rubinetti a secco perché le navi cisterna arrivano quando vogliono. Voi lì a Roma indifferenti e siete leghisti”. La frase attraversò il cervello di Bobo come un chiodo sparato da una pistola di quelle che usano i falegnami. Il giorno dopo prese l’aereo di servizio, un Falcon in uso ai Servizi, e senza annunciare più di tanto il suo viaggio, sbarcò sull’isola che non vedeva un ministro dal 1961 quando al Viminale c’era Scalfaro. Mi convocò: “Vieni con me, ti aspetto a Ciampino e andiamo nella tua Sicilia”. Tappa a Palermo per caricare l’allora presidente della Regione; al seguito Achille Serra, capo della polizia. Era il 12 ottobre del 1994, anniversario della scoperta dell’America; i lampedusani, alle prese con problemi infinitesimali rispetto alla tragedia di oggi, scoprivano l’Italia che si occupava di loro. Non solo Maroni aveva risposto all’appello, se n’era compiaciuto al punto di voler fare il giro dell’isola a bordo di un peschereccio. Potete immaginare la scena: l’Air Force One d’acqua salata, fatte le debite proporzioni, era circondato da motovedette di polizia, carabinieri, guardia di finanza, marina, guardia costiera. I notabili si erano arrangiati su altre imbarcazioni, c’era pure un vescovo. I cui occhi esterrefatti videro il ministro fare conciliabolo col sindaco e poi scendere nella stiva. Ne risalì a torso nudo con un pantalonaccio di fustagno e sibilò: “Adesso io faccio il bagno”. Sole estivo, 37 gradi, all’orizzonte la Baia dei Conigli. Laggiù da qualche parte le artiglierie di Gheddafi dalle quali anni prima era partito un missile inabissatosi a poche miglia dalle coste di Lampedusa. Errore, esercitazione, avvertimento? Chissà. E il ragazzo del Viminale voleva nuotare lì, dentro quella cornice ufficiale, in quel mare a due passi dal pescecane libico. Uno, due, splash: piedi sul bordo della barca, colpo di reni, tuffo non proprio olimpionico come mostra questa sequenza di Giorgio Lotti. Gli agenti sudavano freddo, il bodyguard Giovanni Broggini sentì il dovere (e il piacere: diciamolo) di tallonare il suo protetto. Giù dalla barca anche lui. E io? Ero l’unico del quale non importava nulla alla scorta. Potevo anche annegare. Rimediai un costume e con poche bracciate raggiunsi Bobo che canticchiava una canzone di Modugno. La tensione scemò quando il ministro riemerse e salì a bordo. La notizia fu liquidate in cinque righe dell’Ansa a tarda sera: Maroni era di nuovo a Roma. Oggi serve a descrivere l’uomo che se n’è andato con un suo giallo nelle vetrine delle librerie. S’intitola: “Il Viminale esploderà”. Non è un testamento, nemmeno una profezia. E’ l’ultima soddisfazione di un tipo che voleva fare il giornalista. Addio Bobo: continua a nuotare nel blu dipinto di blues.      

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