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Gli sciagurati eredi di Moro

  • Gianni Spartà
  • 14/11/2022
  • 0

Il film, la realtà

Chissà cosa direbbe ai suoi sciagurati eredi Aldo Moro, fondatore di quel centrosinistra che, salvo miracoli, sta per consegnare alla destra la Lombardia di Giovanni Battista Montini. Fosse solo questo. E chissà quanto la percezione di una politica scaduta a mercato turberebbe oggi quel Papa che implorò “in ginocchio gli uomini delle Br” per salvare il prigioniero, anche dai non trattativisti della Dc del tempo. Ma pur evocando la teoria dei corsi e ricorsi storici, risulterebbero un azzardo paragoni tra il pasticcio Pd del 2022 e il corto circuito democristiano del 1978.  Ma il film “Esterno notte” che vedremo su Ra1  da lunedì nella miniserie di Marco Bellocchio offre più di uno spunto di riflessione sullo sfarinamento del pensiero cattolico-progressista in Italia, dopo gli innegabili servizi resi alla nazione dal dopoguerra, e l’inesorabile estinzione di leader di talento furiosamente sostituiti da imbarazzanti controfigure. La fiction racconta che cosa non si volle capire delle lettere inviate da Moro nei 55 giorni del suo sequestro “giudiziario”: avessero voluto ucciderlo lo avrebbero fatto subito in via Fani, invece intendevano processare, con lui, il sistema di allora. Il primo monito del prigioniero fautore del compromesso storico col Pci di Berlinguer fu questo: non sono qui come Aldo, ma come presidente della Dc, quindi il fatto riguarda tutti voi, cari compagni di partito. Il secondo: è in grave pericolo la ragione di Stato se al di là degli aspetti umanitari io fossi costretto con la violenza a parlare. Il terzo: la difesa dei principi di legalità è inammissibile di fronte a un attacco squisitamente politico. Ora, solo in apparenza non ci fu trattativa con emissari delle Br  e il film lo documenta bene con inevitabili licenze di sceneggiatura. In ogni caso vedere “Esterno notte” da Varese significa rispecchiarsi nei ruoli di due testimoni dei tentativi di sottrarre Moro al boia brigatista: il segretario particolare di Paolo VI don Pasquale Macchi  (Bellocchio ce lo mostra tenero e servizievole, invece fu decisionista, informato di tutto) e Giuseppe Zamberletti, allora braccio destro del ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Il quale gli aveva assegnato il compito di seguire discretamente, insieme col colonnello dei carabinieri Antonio Varisco, la pista segreta di una mediazione del Vaticano. Essa prevedeva che  la mattina del 9 maggio 1978  Aldo Moro arrivasse libero Oltre Tevere, dopo il rilascio dato per certo. Un particolare: dalle stanze di Paolo VI, presidiate da Macchi, monsignor Cesare Cuironi, ispettore capo dei cappellani delle carceri, era stato incaricato di preparare il pagamento di un riscatto qualora le Br l’avessero preteso. In una scena del film si vede una montagna di banconote radunate su una scrivania nello studio papale. E questa ricostruzione si ritrova pari pari in un libro scritto da padre Carlo Cremona nei primi anni ’80 al Sacro Monte di Varese. Il celebre telecronista dei papi s’era rifugiato lassù, ospite dell’amico don Pasquale, per lavorare in pace. Che cosa accadde quella mattina fatale, perché Moro fu ucciso anziché liberato? E perché i falchi prevalsero sulla colombe nelle Br divise e improvvisamente ricompattate? Anche a Cossiga il capo dei Servizi segreti della Germania Orientale aveva annunciato, per il 9 maggio, la scarcerazione del capo democristiano. Se la trattativa era in corso, se è vero che il presidente della Repubblica Giovanni Leone era pronto a firmare la grazia per una brigatista non colpevole di omicidio, che cosa scompaginò i piani? Eccoli gli l’enigmi della nebulosa Moro a 44 anni dai fatti. Lodevole farne memoria affidando l’interpretazione di Moro affidata al magistrale  Fabrizio Gifuni.

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