Blog



La versione di K

  • Gianni Spartà
  • 31/12/2021
  • 0

Cossiga visto da vicino

“Caro Spartà, la ringrazio per il suo articolo generoso. Ma vede, io sono stato solamente un professore d’università prestato alla politica e sarò ricordato, non nei libri di storia, bensì nelle note a piè di pagina di essi o nelle tavole cronologiche. Certamente sarò ricordato nelle cronache di Varese. Con amicizia, Francesco”.  La lettera datata 19 luglio 2008 mi arrivò due giorni dopo. Sulla busta giallina uno stemma ovale rosso con il simbolo della nazione e la scritta Presidente Emerito della Repubblica. Avevo scritto un commento in prima pagina per gli 80 anni di Cossiga e quell’atto di ironica umiltà da parte di un ex capo dello Stato mi intrigò. Il personaggio era stato operato due volte all’ospedale di Varese e dunque manifestava riconoscenza alla città. Ma doveva esserci dell’altro in quel messaggio scritto a mano con una grafia pazzesca. Telefonai a Giuseppe Zamberletti che mi rivelò il retroscena. Mi disse che il suo amico inseparabile sì, ma anche autore di un sgarbo (“non mi difese quando, da uomo del Colle, avrebbe dovuto opporsi alla mia sostituzione con Remo Gaspari durante l’alluvione in Valtellina”), voleva diventare varesino onorario, lui sardo fino al midollo. Non sapeva a chi comunicarlo e in maniera criptica informava un giornalista che conosceva bene, affinché egli, in qualche modo, se ne facesse carico, quanto meno da portavoce. Per me onore e imbarazzo. Il tipo era fatto così. Ne parlai con l’allora sindaco Attilio Fontana e con l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni. “Io vi informo, fate voi”, dissi e entrambi. E il primo cittadino fece. Portò la proposta in consiglio comunale e l’iniziativa fece storcere il naso alle opposizioni e anche la bocca a un tale che nel consesso rappresentava se stesso e la sua immagine allo specchio. Morale: Fontana, leghista ma estimatore di Cossiga, mandò avanti la pratica e la sua giunta votò l’ok all’unanimità. Solo che il destinatario non venne mai a ritirare il premio. “Mica posso ricevere la cittadinanza onoraria a maggioranza”, confidò a Zamberletti. E non si mosse dal suo rifugio a Palazzo Giustiniani, accampando ragioni di impegni e di salute, in verità offeso dal fatto che il riconoscimento, in ogni caso attribuito, non aveva sollevato “ola” da stadio. La mosca al naso, quando gli ronzava attorno, faceva parte del suo personaggio. Che in ogni caso è stato un presidente della Repubblica indimenticabile. Restano nelle memoria più recente le sue battute. La più sferzante? Quella dedicata a Occhetto: «È uno zombie con i baffi». La più irriverente? Quella indirizzata a Cirino Pomicino: «Siamo un Paese solido se sopportiamo un analfabeta come ministro del Bilancio». La più caustica? Quella su De Mita: «Dico cose incomprensibili quando parlo troppo, Ciriaco anche quando parla poco». E giù picconate. E giù esternazioni, grigio vocabolo diventato l’imprevedibile simbolo di un’epoca. Alto, imponente, i capelli rapidamente imbiancati quando le BR rapirono e uccisero il suo amico Aldo Moro e lui era ministro dell’Interno. Colto, ironico, sicuro di sé, eppure percettibilmente malinconico. Cocciuto come un sardo, distinto come un baronetto inglese. Quanti tentativi, inevitabilmente parziali, di decifrare l’uomo, oltre che il politico. Quanti estimatori e quanti nemici. Quelli storici, che scrivevano Kossiga; quelli recenti, che gli hanno attribuito tutto: anche sotterranee connivenze con i poteri forti. Lasciò il Quirinale il 25 aprile 1992. Un lungo messaggio televisivo, 45 minuti, poi le dimissioni, minacciate quindici volte nei mesi precedenti. La storia non dimenticherà il grande picconatore, la cronaca il piccolo principe che è sceso dal Colle ed è salito su un aereo militare, a Ciampino, diretto in Irlanda. Già visto per Umberto di Savoia. Con una differenza: l’esilio di Cossiga è stato volontario e temporaneo. È tornato, da senatore a vita, e quando ci voleva esternava ancora, abbattendo palazzi. Lo intervistai la primavera nel 1993: stavo scrivendo “Se lo dice lei”, un libro di interviste a cavallo tra la Prima Repubblica e la presunta Seconda. Gli feci una serie di domande, una sulla Dc  e il Pci: tra l’altro Berlinguer era suo cugino. Riposta: “ Considero il compromesso storico e il periodo dell’unità nazionale la stagione politica più esaltante. Poi una cosa grande degenerò in una manovra vile: il consociativismo. Ed è accaduto quello che abbiamo visto”.

Aggiungi Commento

Nome
Email
Testo Commento (evidenzia per modificare)

(0) Commenti