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L’altra campana

  • Gianni Spartà
  • 11/12/2021
  • 0

Un territorio, due giornali

Il “barone” Enzo Tresca da Santa Maria Capua a  Vetere,  imparentato con i Pajetta-Berrini del “contado” di Taino, pochi minuti prima della mezzanotte ordinò un taxi in viale Tamagno e si fece portare davanti al portone di una tipografia di Grandate (Como). Lì lo aspettava un tale, da lui aveva infiltrato nelle retrovie “nemiche”, che gli consegnò una copia del nuovo  Giornale in uscita a Varese: era la notte del 1 dicembre 1973 e pensate il destino, lo stesso mese, un giorno dopo, ma nel 1888 era nata La Prealpina. Enzo sfogliò in cerca di titoli clamorosi da segnalare eventualmente al suo di giornale che all’epoca restava aperto fino alle due e mezzo quando cominciava a girare la rotativa. Non vide nessun “buco”, in gergo notizia mancante, si accese una  sigaretta, telefonò al capo Vedani e con una risata esplosiva, il suo modo di stemperare la tensione, gli disse: “Il barone vi saluta”. Quel  titolo se lo attribuiva di tanto in tanto per auto-ironia, senso di insicurezza alleato del genio, cuore generoso compagno delle malinconia. Sapeva scrivere Enzo: l’attacco di un pezzo era una doglia che poteva durare mezzora ma spuntava sempre un fiocco più bello di tutti gli altri. E’ morto a 34 anni in un incidente della strada, lui che non aveva la patente: l’ultima sceneggiata del “barone”. Scusate l’indulgenza al rimpianto. Un fatto è certo: in Prealpina avevamo preso molto sul serio l’uscita di un quotidiano  concorrente. Giovani balilla dell’Olivetti 22 o 35, tutti ventenni (Massimo Lodi, Maniglio Botti, Fausto Bonoldi, il fratello maggiore Antonio Porro, ma come dimenticare Natale Cogliati e il maestro vignettista Gaspare Morgione), eravamo stati indottrinati alla difesa del casato che  non poteva subire insolenze avendo un nome glorioso. Lo esigevano Mario Lodi e Nino Miglierina, condirettori, se lo aspettava l’editore di allora Stefano Ferrario. Dovessi descrivere il clima in redazione citerei Pozzetto: “…e il malumore serpenteggia tra le file”. Insomma fastidio non paura, vita cambiata ma neanche troppo, più riso che pianto. Fino a quando non conoscemmo la squadra avversaria sul campo e scoprimmo che la colleganza non è necessariamente odio vigilante. Lo diventa più spesso tra consanguinei che tra estranei. Quanti ricordi: Sergio Redaelli, Renzo Magosso, Dedo Rossi, Ezio Motterle, Enrico Minazzi, Sandro Frigerio, Aldo Mongodi che poi passò con noi, ovviamente il direttore Ambrogio Lucioni, l’ex che aveva cambiato maglia. Sandro non scriveva articoli di politica e di vita amministrativa, elaborava piani quinquennali che sindaci e parlamentari copiavano. Sergio era il mio gemello diverso in tribunale, sul luogo di delitti, rapimenti e rapine. Che scuola la cronaca giudiziaria! O ti schianti o impari un metodo. Erano i formidabili Settanta: sotto la cenere d’una città cattolica, ricca e borghese ardevano le micidiali scintille del terrorismo rosso e nero. Avevamo la ‘ndrangheta in casa da almeno due lustri e non lo capimmo. Né noi scribi,  né magistrati, poliziotti e carabinieri. Il Giornale usci per quattro tre anni e se non si rivelò un buon affare per i suoi editori, Sergio Violini e Ugo Parravicini, in ogni caso capitani coraggiosi - l’impresa senza rischio è esercizio abusivo della professione-  fu quello un periodo assai interessante sul piano storico, economico, sociologico. Una provincia, due giornali, due modi diametralmente opposti di osservarla. E non per divergenza politica, ma per diverso approccio editoriale. Il fenomeno si sarebbe ripetuto, non con quel pathos, quando ormai la carta era insidiata dal web che mai sostituirà il giornale legato a un territorio a cavallo di tre secoli. Ora su quest’esperienza speciale vissuta a Varese è uscito un libro “Una voce alternativa” che fornisce tanti spunti allo studio di un epoca. La pubblica Pietro Macchione, l’editore calabrese che ha spiegato Varese ai varesini con centinaia di titoli. Succede spesso.                                

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