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Dj da marciapiede

  • Gianni Spartà
  • 19/09/2021
  • 0

Il matto di Varese

Girava la città con un mangiadischi rosso. Lo teneva ad altezza del viso, come fosse un megafono, e da quell’aggeggio portatile in voga negli anni ’70 uscivano le note dell’Inno di Mameli che inondavano le strade del centro storico. Il dj da marciapiede era Gaspare Pappalardo, che sostenendo con una mano l’apparecchio, con l’altra faceva il saluto militare stando immobile sull’attenti come alla festa dei carabinieri. Quanti ricordi del “matto” di Varese che nel mondo d’oggi potrebbe aspirare a qualche seggiola pubblica: seguite in tv certi i talk-show serali. E quante riflessioni sulla follia che ha percorsi imperscrutabili sennò Erasmo da Rotterdam non le avrebbe dedicato l’elogio solenne. Gaspare è stato il pazzerello del villaggio fino a quando, pulito e quasi irriconoscibile, lo scovammo in una casa di riposo della Valceresio. Era sparito dalla circolazione, due anni dopo, 7 giugno del 2012, sarebbe morto sereno, dicono, e circondato da unanime malinconia. Aveva 88 anni.  Lo hanno amato nonni e bambini, lo salutavano con rispetto, e anche con un po’ di timore, i notabili: con una delle sue battute poteva stroncare una reputazione, rovinare una carriera. Una volta sostò sotto il palco di un comizio in piazza Monte Grappa e quando l’oratore finì di parlare lui, con un balzo, si prese la scena. Afferrò la mano al personaggio e al microfono gli gridò: bravo! Applausi della folla. Per quel fuori programma bertoldesco, naturalmente, con per il discorso che era stato noiosissimo. Nel periodo d’oro delle grandi ciucche Pappalardo era formidabile frequentatore notturno della Prealpina. Ci telefonavano gli infermieri del Pronto soccorso: “C’è qui Gaspare, gli abbiamo dato un bicchiere di latte. Che facciamo?”. Un cronista saltava in auto e correva a recuperare il senza letto al quale andava benissimo un divano che stava all’ingresso del giornale, a quell’ora deserto (l’ingresso, non il giornale sveglio sino all’alba). La mattina seguente l’ospite tornava a casa sua: la strada. E da lucido dava la biada a molti “normali”: veniva da una buona famiglia, immaginiamo del Sud, era andato a scuola, non gli faceva difetto l’intelligenza. Inutile sarebbe stato il tentativo di redimerlo: ormai il suo personaggio era quello. Danneggiava cabine telefoniche, camminava per le vie  stretto in abiti improponibili, finiva in carcere, ne usciva, ci ritornava. Pazzo, non scemo. Lo dimostrò davanti a un pretore che gli chiedeva conto del furto di un autobus urbano davanti a un bar della Schiranna. Interrogato, disse: “Ho sbagliato signor giudice, ma pensi se al posto mio fosse salito un bambino”. L’autista aveva lasciato le chiavi nel cruscotto ed era andato a bere un caffè. Gelo in aula. Attenuanti generiche. Grande Gaspare.  

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