I rumori del Futurismo
- Gianni Spartà
- 16/02/2020
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Da Pisa e Varese
La coda di visitatori disegnava una lunga fila sulle rive dell’Arno una settimana fa a Pisa dove chiudeva i battenti una bella mostra sul Futurismo. E il pensiero è corso a Varese dove esattamente dieci anni fa moriva Gianfranco Maffina, l’ultimo seguace di questo movimento artistico (pittura, scultura, musica) che tanta parte ha avuto nella cultura italiana del Novecento. Ne fu capostipite Filippo Tommaso Marinetti con un celebre manifesto ideologico dal quale si sprigionò una sorta di grido di battaglia contro gli stili fino a quel momento dominanti, in primis l’impressionismo. Ora, ai digiuni d’arte il nome Maffina dirà poco. Ma agli appassionati di quella cultura che si coltiva in ogni città, la nostra compresa, questo personaggio individua il fantasioso musicologo, il raffinato scopritore di artisti della tavolozza, il Savonarola che ha attraversato un’epoca a cavallo di due secoli calcando i palcoscenici di mezza Europa, al fianco della moglie Rossana Maggia, eccellente soprano. Maffina era un autentico bohemien: mentre le folle impazzivano per i Beatles, lui stupiva selezionate platee con un monumentale strumento dalle cui bocche uscivano ululati, gorgoglii, scoppi, ronzii, suoni sgradevoli se ascoltati "a freddo", deliziose sinfonie se accompagnate da un violino, da un pianoforte e dal do di petto di una cantante lirica. Il maestro viveva in via Bagaini, dimenticato e avvilito per aver fatto di Varese, invano, il punto di riferimento internazionale degli studiosi di musicologia senza trarne gloria. E per avervi insediato una fondazione intitolata a Luigi Russolo che ebbe due volti: del pittore che dipingeva tele come Balla e Boccioni utilizzando i colori e le forme dell’energia futurista; dell’inventore di una scuola cui si deve la rivoluzionaria arte dei rumori. Qui sono venuti studenti da tutt’Europa a compilare tesi di laurea su Russolo, nato a Portogruaro e sepolto nel piccolo cimitero di Cerro di Laveno. Nel 2009 Milano aveva celebrato i cento anni dalla nascita del Futurismo. In quell’occasione andaì a trovare i Maffina, con lo spirito del visitatore di un museo, e trovai due ottuagenari immersi in una fiera dei ricordi. Nelle loro stanze il frutto di studi dispendiosi e impegnativi. Nel loro racconto, faticoso per l’età e gli acciacchi, la consapevolezza che il virus della curiosità culturale produce effetti sorprendenti. C’era di tutto nella casa di via Bagaini: videocassette dei concerti futuristi, fotografie delle mostre curate dal critico Gian Franco Maffina, manifesti delle iniziative vulcaniche di Marinetti, quadri naturalmente e quel mostriciattolo caricato a manovella dalle cui fauci usciva frastuono. Era l’Intonarumori: solo un futurista poteva chiamarlo così con verve immaginifica. Federica, la figlia di Rossana, ci fece sentire una performance della mamma che eseguiva l’aria di un’opera: «...gracida nel bosco la cornacchia...». Lei smetteva di cantare e si scatenava un diluvio di suoni onomatopeici fabbricati dalla macchina infernale che nel suo repertorio contemplava anche il gracidio. Se non sono matti non li vogliamo? Beh, un po’ matti erano i futuristi. Ma Maffina giurava: «Verrà il momento in cui si capirà il loro messaggio avanguardistico». Morto l’operoso collezionista, resta, da qualche parte, il suo patrimonio: le note elettriche, i rumori domati fino a farli diventare suoni. Davvero un peccato se le tracce di queste memorie andassero perdute per sempre.