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Il kimono del nonno

  • Gianni Spartà
  • 04/01/2025
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Addio a Rosita Missoni

Le chiesi una decina d’anni fa: se Rosita volge lo sguardo al passato che cosa vede? E lei: «Vedo un kimono trovato in un mercatino di Parma. Sull’etichetta c’era scritto Nitor, il marchio di fabbrica tessile di mio nonno Piero Torrani. Poi venne mio padre Angelo Jelmini. Il resto lo conoscete». Sì, la conosciamo tutti la storia della signorina di buona famiglia, carina, minuta, stretta in un tailleur blu da collegiale che a Londra incontra Ottavio, esule dalmata, «grande, sottile e un po’ mona» (autoritratto), chiuso in una tuta da atleta olimpionico. Si possono aggiungere i dettagli: il luogo fatale e fatato è Piccadilly Circus, l’anno il 1948. Un lustro dopo il matrimonio della coppia più bella del mondo dal quale scaturirà un celebre marchio di moda: Missoni. Ottavio se n’è andato il 9 maggio del 2013 a 92 anni; Vittorio, il figlio primogenito, aveva fatto una fine tragica con la compagna Maurizia cinque mesi prima, il 4 gennaio, in un incidente aereo nel mare di Los Roques. In famiglia il Capodanno è messaggero di sventura: negli stessi giorni del 2025 perdiamo il sorriso di Rosita che s’è tenuta nel cuore il nero del lutto senza rinunciare ai colori di sempre, mescolati con sapienza, arte, buon gusto. Fama e successi per questa donna di ferro: prima la Rosa Camuna, assegnatale dalla Regione Lombardia, poi l’onorificenza di cavaliere del lavoro, omaggio all’operosità lombarda. Ho rintracciato scampoli di quel breve colloquio nell’atelier di Sumirago, tra fogli e brandelli di stoffa appesi dappertutto. Rosita tagliò corto sui riconoscimenti internazionali: lauree honoris causa nelle università americane e britanniche, a New York, 1973, il premio Neiman Marcus considerato alla stregua di un Oscar. Mi disse che la fortuna più grande per lei era stato Ottavio. «Sembra ieri a Londra: lui aveva vinto una gara alle Olimpiadi e col suo commissario tecnico, l’amico Oberwerger, s’era messo a fabbricare tute di maglia; io ero lì a imparare l’inglese. La mia famiglia, sono una Jelmini, nata e cresciuta a Golasecca, possedeva una tessitura. Noi abbiamo messo i telai, lui ha inventato i maglioni a strisce. La collezione che ci fece conoscere in America si chiamava Put together. Il Chicago Tribune scrisse che quei colori sono erano rivelazione di bellezza». Rivelazione e rivoluzione: i vip cominciarono ad andare in giro vestiti come i nomadi birmani… «Sì, fu una riscoperta della maglieria, che fino a quel momento si coniugava solo con i capi intimi. Il maglione divenne un simbolo di distinzione. Il rischio di essere copiati c’è sempre stato. Il primato della fantasia e della creatività è nostro e la lieta novella sono le scuole che si propongono di perpetuare una tradizione di stile e di buon gusto. Vedete, Parigi è il palcoscenico delle sfilate, Milano però resta la capitale della grande moda. Questa la verità, le altre sono opinioni». Giusto dire addio a Rosita nella basilica di Sant’Ambrogio, il simbolo della milanesità.    

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