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Sostituzione etnica

  • Gianni Spartà
  • 13/12/2025
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La strage di Santa Lucia

In sonno apparente Umberto Bossi, scomparso Roberto Maroni, qualcuno doveva alzare il tiro dalla Betlemme della Lega, cioè Varese.  Lo fece due mesi fa Attilio Fontana a un convegno dei Giovani Padani: “Col ca… che ci lasciamo Vannaccizzare”. Il Generale era in grande spolvero, una Bersagliera in cerca d’autore gli reggeva la coda. Giorni fa un’altra passata senza turpiloquio, più in linea col personaggio, ma sempre allusiva: “Vertici del governo assenti alla Scala? Stiamo bene anche da soli. Il Nord dà fastidio e l’amatriciana è buona per tutti”.  Renato Pozzetto direbbe che il “malumore serpenteggia tra le fila”. Il vecchio Carroccio s’è sfasciato, reduci e combattenti dell’ancien regime provano nostalgia e la domanda è questa: quante volte può cambiare pelle il partito più longevo delle Seconda Repubblica, che cosa rimane del Nordismo, del vagheggiato Lombardo-Veneto, dell’anatema contro Roma Ladrona? E una volta gettato via, l’antico rivestimento si può ricomporre su uno scheletro, come accade dopo un’autopsia? Ragionarne è lecito a ridosso del 13 dicembre, Santa Lucia, patrona degli occhi. Che sberla ragazzi in quella giornata del 1992, né freddo né neve e cielo senza nuvole sopra i Giardini Estensi. Lì mezzo mondo era venuto ad assistere all’avvento in Italia di una Seconda Repubblica. C’erano inviati di network americani, tedeschi, britannici muniti di antenne paraboliche. E c’era anche il meglio della Rai. Decine di mezzi busti interessati all’evento, si capisce, ma anche timorosi di veder scorrere i titoli di coda sulle loro carriere cominciate in qualche retrobottega della Dc e del Psi. Caduti gli dei democristiani e socialisti, la Lega Nord trionfò nelle urne delle elezioni comunali. L’agevolarono le manette di Varesopoli che poterono più della falce senza martello di Umberto Bossi. Ma piaccia o no in quell’ inverno che non era inverno, il capoluogo dei sette laghi si consegnò ai cospiratori della secessione mai nata, con un fatto curioso: a rappresentarla in carne e ossa spuntò un tipo longilineo, laureatissimo, la testa affollata di conoscenze umanistiche, l’eloquio infarcito di latinorum, insegnante di italiano ai corsi serali di una scuola di Gallarate. Insomma, la controfigura del celodurismo militante, l’antitesi del popolo infervorato che ogni anno venerava ampolle d’acqua riempite alle sorgenti del Po, la controfigura del balenottero torinese Mario Borghezio e del tricheco della Valsugana Erminio Boso: il professore Raimondo Fassa. Lo avevano intercettato mesi prima Roberto Maroni in un incontro casuale e a Bobo era piaciuto l’esegeta delle idee rivoluzionarie di Gianfranco Miglio, maestro di un pensiero che Bossi interpretava a modo suo. Appuntato il suo nome su un taccuino, il futuro “ragazzo del Viminale” lo spifferò all’amico ex comunista Daniele Marantelli. Il quale ebbe il privilegio, da sopravvissuto della Prima Repubblica, di partecipare alla selezione leghista per scegliere il futuro sindaco di Varese, calato nei panni del primo borgomastro d’Italia. I due a quei tempi si muovevano come il Gatto e la Volpe nel sacro vincolo della reciproca fiducia. Pranzavano al ristorante Bologna, confabulavano. Vero che dopo lo straripante successo del 13 dicembre la Lega avrebbe potuto spedire a Palazzo Estense anche Pappalardo, la macchietta che circolava per la città con un mangiadischi a tutto volume. Ma ignorare l’opposizione, seppur a brandelli, non sarebbe stato utile. Dopo un piatto di pennette non all’arrabbiata, Maroni e Marantelli s’alzarono da tavola e annunciarono il varo di una giunta verde-rossa capitanata da Fassa. Sappiamo che l’avventura durò cinque anni soltanto, metà dei quali vissuti in una sorta di part-time perché don Raimondo si era tolto lo sfizio di essere eletto europarlamentare. Ma come andò la missione del Professore a Varese lo spiega un titolo della Prealpina dell’8 novembre 1995: “Sindaci d’Italia: Fassa straccia Formentini. E’ sesto su cinquantaquattro in un sondaggio della Tgr Lombardia. Sarebbe rieletto se accettasse di ripresentarsi”.  Il segreto del successo lo spiegò l’interessato: “Un funzionario diceva a Mussolini: duce si guardi dal veleno più pericoloso, l’incenso. A me i giornalisti di Varese d’incenso ne hanno riservato poco. Ma le critiche, le sollecitazioni, quelle intelligenti, della stampa locale mi sono servite”.  Sorvolò Fassa sull’asso nella manica: a Palazzo Estense aveva trovato nel suo vice Piergianni Biancheri, repubblicano, e nel segretario generale Antonio Conte due consiglieri formidabili. In compenso il maestro della citazione perpetua si appropriò di un verso di Dante: “E io fui sesto tra cotanto senno”. Uela!  Capite che un simile soggetto non poteva accettare il secondo mandato (a proposito: Fassa tornerà in scena per il voto del 2027? Dicono, anzi cantano, che ci vuole un Civico Bestiale. Da non prendere in senso stretto). Le cose erano cambiate rispetto agli esordi con la “strage di Santa Lucia”. Accadeva che il Professore oscurasse il Capo. Eccolo su Rai 1 col suo forbito argomentare accanto a Enzo Biagi in una trasmissione che si chiamava Il Fatto. Ancora lui fotografato a Cernobbio tra i potenti della Terra ospiti del gran cerimoniere Alfredo Ambrosetti. Sempre lui corteggiato da Berlusconi e da Casini nel 1995 quando una rovesciata del Senatur nella propria area di rigore inflisse l’autogol al primo governo del Cavaliere. Il tempo tiranno non diede modo al Senatur di licenziare il socio ingombrante, com’era accaduto con Castellazzi, Gnutti, la Pivetti. Fu Fassa a licenziarsi da sé. Quel 13 dicembre 1992 Bossi si gustò il successo con in braccio in figlio Renzo di cinque anni, il girino che sarebbe passato alla storia come il Trota. Dal balcone della sede storica di un movimento spacca-Italia, curiosamente affacciato sulla statua del Garibaldino, simbolo dell’Unità tricolore, il Senatur fece “V” con l’indice e il medio alzati a favore di fotografi. In un impeto di gioia alzò sopra la testa il bambino come fanno i sacerdoti in chiesa con le reliquie dei santi. E anche il piccolo agitò la manina socchiusa imitando il papà. Negli anni ruggenti Indro Montanelli descriveva così il Senatur: “Un pokerista della politica, un lombardo alla mano, un attore formidabile capace di liquidare amici e colleghi con una freddezza degna del miglior Lenin. Io non so che dire: a me un tipo così, un po’ filibustiere e un po’ cavernicolo, è simpatico. Ma non riesco a prenderlo sul serio”. Quanto alla patente di ”illusionista”, non era un modo per denigrare Bossi, ma caso mai per spostare l’attenzione su milioni di elettori che dai primi anni ’90 in avanti si erano lasciati affascinare dai suoi rombi di tuono: industriali, artigiani, commercianti, liberi professionisti, in incognito anche magistrati. Erano talmente infarciti di nausea verso la politica questi quarti nobili della borghesia lombardo-veneta, che accodarsi a un pifferaio magico fu tentazione invincibile. E così si emancipò un movimento di eccentrici, fabbricato con gli scampoli del vecchio autonomismo regionale. Sì il federalismo mai nato allora, morto e sepolto oggi. Con quali prospettive per la Lega salvinizzata in una sorta di sostituzione etnica? Non è più padrona del Nord, ha ammaliato il Sud con il Ponte sullo Stretto, rischia di rimanerci impiccata.

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Umberto Bossi Attilio Fontana Matteo Salvini

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