MV Agusta, le 7 vite
- Gianni Spartà
- 31/08/2025
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I gatti hanno sette vite, MV Agusta pure. Prima notizia: è sempre viva, vegeta, rombante nel portafoglio di una famiglia russa, i Sardarov. Seconda notizia, stupefacente: in trent’anni questa moto è stata varesina, per il genio e il tempismo di Claudio Castiglioni, poi è diventata malese (Proton), quindi americana (Harley Davidson), di nuovo italiana con Castiglioni che se la riprese, infine tedesca (Mercedes) e per ultimo austriaca (Ktm), prima del ritorno in sella di Timor Sardarov. IL quale è discendente, tanto per capirci, di una potente dinastia con interessi nell’industria del petrolio e del gas. Se si aggiunge che la Piaggio, dopo l’abbandono degli asiatici nel 2003, aveva manifestato fervido interesse nel ad acquisire un marchio storico delle moto sportive per evidenti ragioni di mercato e poi ha desistette pagando una penale, è facile disegnare un percorso industriale unico, senza la pretesa di spiegarlo fino in fondo. Perché tutti la vogliono, tutti la lasciano, tutti se la ricomprano la bella creatura dalle ciglia dipinte di rosso e d’argento, con quelle due iniziali M e V che significano Meccanica Verghera e stanno a cavallo di un ingranaggio meccanico stilizzato? “Perché la sua forza di seduzione è il prodotto inimitabile, conosciuto in tutto il mondo. A Dubai incontrai ragazzini cinesi con quel marchio italianissimo sulla maglietta”, mi dice Vincenzo Polidori, dottore commercialista dello Studio Caramella che da sempre segue le vicende della fabbrica di Schiranna. E tuttavia anche nel mondo delle professioni risulta complicato capire questo autentico fenomeno imprenditoriale che sfiora due suggestioni: il miracolo e la leggenda. Il miracolo perché MV Agusta era ormai l’icona inanimata di un’azienda familiare di sangue blu quando due fratelli con le marmitte nel sangue (Gianfranco, il maggiore, Claudio il minore) ne disseppellirono lo storico marchio. Lo volevano affiancare a quello delle loro motociclette targate Cagiva: molti sembrava pensavano a una parola giapponese, tipo Kurosava, e invece era l’acronimo casereccio di Castiglioni Giovanni Varese. La leggenda perché MV significa evocare, tra l’altro, le imprese di Giacomo Agostini, faccia simpatica nella quale si riconobbe l’Italia degli anni ’60: vinse 123 gran premi, più di Valentino Rossi, anche se i paragoni sono azzardati. Non dimentichiamo le vittorie di Pasolini e Ubbiali, audaci piloti che come gli squali allargavano le pinne nere affrontando le curve . Su come riuscirono i Castiglioni a infilarsi negli affari dei conti Agusta, una famiglia siciliana poi protagonista dell’epopea degli elicotteri, si sa poco o nulla. Pareva che il loro mobile d’epoca di nome MV dovesse finire all’asta nei primi anni ’90 quando Cagiva aveva già in casa un altro gioiello, Ducati, dismesso dalla Partecipazioni statali. Ci fu una trattativa condotta da Rocky, discendete di Giovanni, Domenico e Corrado e prevalse, alla fine, la rara capacità di persuasione di Claudio. E’ un fatto che una sera di metà settembre del 1997, davanti a osservatori giunti a alla Fiera di Milano da tutti gli angoli del pianeta, spuntò su una piattaforma circolare la MV Agusta del secondo millennio in uno sfolgorio di luci e decibel. Fu come se un Toscanini ringiovanito fosse uscito dalla tomba salendo sul podio della Scala davanti all’orchestra. Il modello si chiamava F4. L’avevano messo al mondo Massimo Tamburini, mago riminese delle due ruote, e Luigi Botta, disegnatore di Varese, figlio d’arte perché suo padre Francesco aveva fatto lo stesso mestiere all’Aeronautica Macchi. Luoghi del concepimento, della gravidanza e del parto: Maranello, Schiranna, Borgo Panigale. Come dire che nel Dna della rediviva si potevano individuare i cromosomi de Cavallino rampante, dell’Elefantino Cagiva e del Cucciolo Ducati. C’ero quella sera a Milano insieme con Roberto Ferrario, editore della Prealpina, appassionato di motori e amico di Claudio Castiglioni. Questi i titoli dei quotidiani il giorno dopo l’evento: "Cagiva riporta in strada la moto del secolo", "MV Agusta, il mito ruggisce ancora", "Castiglioni rilancia MV: la vera Ferrari delle moto". La Gazzetta di Candido Cannavò puntò sull’emozione: "Lustratevi gli occhi. E’ una MV". Negli articoli la parola ricorrente era "scultura" per descrivere un concentrato di bellezza esagerata. Si conobbero i dettagli della partecipazione della Ferrari al progetto del nuovo motore. Ed emersero rivelazioni sensazionali sulla messa a punto dell’opera d’arte nella bottega rinascimentale del maestro Tamburini. Un professore d’orchestra aveva accordato il silenziatore di scarico per trasformare il rumore in sinfonia, il rombo di tuono in frequenze musicali. Quattro tonalità distinte a seconda del numero di giri. E’ il caso di dirlo: andante con moto. Giacomo Agostini sarebbe stato il testimonial del nuovo corso e a lui toccò, quella sera a Milano, spiegare la reincarnazione di una divinità. Egli diceva che Claudio Castiglioni fabbricava sogni, non motociclette. E che la nuova MV era qualcosa che i giapponesi non si sarebbero potuti permettere essendo semplici industriali. Dopo il lancio mondiale a Milano, l’F4 girò per saloni e musei suscitando ammirazione. La esposero al Guggenheim di Bilbao e di New York, le dedicarono dossier le riviste specializzate. “Ho visto un re, abbè’ si bè…”: ricordate il ritornello della famosa canzone di Jannacci? A Claudio capitò veramente di vederlo un re: Juan Carlos in carne e ossa, sovrano di Spagna, pimpante e sorridente nel Palazzo della Zarzela, residenza di teste coronate dal XVII secolo. Era andato a Madrid a presentargli l’F4 e quello montò in sella, senza casco, con la sua mole imponente, mise in moto, sparì. Ricomparve e sospirò: è una favola. E queste sono le rose, circondate anche allora dalle spine dei conti economici. Cominciava la girandola dei proprietari nella sala dei botton. Dopo la breve parentesi malese a Schiranna arrivarono i nostri, cioè gli americani dell’Harley Davidson. Essi cavalcarono per un po’ le MV Agusta, poi, di punto in bianco, alla luce del cambiamento delle strategie di mercato, se ne tornarono da dove erano venuti riconsegnano a Castiglioni le chiavi dell’azienda. Era il 2013 quando il ceo dell’Harley spiegò ai giornalisti la ritirata dall’Europa. “A quarter of bilion dollars”, bofonchiò il manager lasciando gli uffici della Schiranna. Tanto era costata agli americani l’effimera avventura italiana. I primi sei mesi senza il Grande Fratello d’oltre oceano furono drammatici, anche per i problemi di salute di Claudio scomparso il 17 agosto del 2011. In America ci andava per visite in ospedale, non più per le moto. E durante i ricoveri buttava giù appunti da passare al suo erede Giovanni. Dura venire dopo un uomo come suo padre: le moto erano strepitose ma bisognava venderle. Dura anche scegliere il migliore tra i soci finanziari che cominciarono a ronzare attorno all’azienda. Parve risolto il dilemma quando il pacchetto di maggioranza passò ai tedeschi della Mercedes: avevano soldi e una potente rete commerciale. Ma fabbricavano automobili e le moto sono un’altra cosa. Ed ecco materializzarsi Timur Sardarov (foto) , il giovane figlio di un oligarca moscovita innamorato dell’Europa e subito affascinato da ciò che si trova scendendo in riva al lago di Varese in una giornata tersa: canottieri che si allenano, canneti, cigni, anatre e boe, uno specchio d’acqua abitato nell’antichità da palafitticoli e laggiù un isolino a pochi metri dalla terra ferma. Il tutto sormontato da un Monte Rosa spettacolare. Poi la vecchia fabbrica con davanti un aereo issato sun su un piedistallo, ricordo di tempi in cui prima delle moto lì dentro si forgiavano gli ali e i timoni degli idrocorsa della Macchi. Ma c’è un particolare che spesso si dimentica parlando di queste industrie di ieri e di oggi. Varese è terra di bravi meccanici capaci di mettere le mani in ogni tipo di motore. Varese ha vissuto anni gloriosi tra carlinghe e serbatoi. E a Varese si vive bene. Ciò che Timur Sardarov imparò quasi subito trasferendosi da queste parti con la famiglia e scommettendo sulle sette vite del gatto che a volte possono essere nove.