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Giorgia e i suoi Fratelli

  • Gianni Spartà
  • 04/12/2023
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Giudici e politica

Il dibattito politico ha sempre un retro-pensiero, a volte autentico, altre fuorviante. Quando c’è di mezzo la giustizia, esso si rivela inutile e confusionario. Solo l’ingenuo può non comprenderne il motivo: si scontrano i due massimi poteri dello Stato,  l’esecutivo e il giudiziario, e in uno scontro prima o poi qualcuno cede e l’altro se ne avvantaggia. Oppure resistono entrambi e ne esce un infinito braccio di ferro. Che ha sinceramente stancato perché la guerra dura da trent’anni, precisamente da quando una Procura d’Italia si svegliò una mattina e con l’alibi di stroncare pratiche illegali in un famoso ospizio, cominciò a tradire una sorta di patto silenzioso tra magistratura e politica. In allora ciascuno faceva la sua parte evitando i reciproci bastoni tra le ruote. Salvo casi talmente eclatanti da non poter esimere il controllore dall’arrecare danno al controllato e viceversa. Il risultato fu una pace istituzionale durata il tempo della Prima Repubblica, quasi mezzo secolo. Quando quell’alleanza implicita cadde a pezzi assistemmo alla più vigorosa demolizione che il Palazzo potesse aspettarsi. Venne giù tutto, le sacre mura dei partiti, l’invulnerabilità dei suoi dei, il quieto vivere nel condominio del comando. Il re si scoprì nudo e solo la storia dirà se ci fu esagerazione tra guardie e ladri. La frase di un capo dei demolitori, tanti anni più tardi, fu un’amara constatazione: i successori dei demoliti,  organizzatisi sotto il cartello della Seconda Repubblica, non avevano rinunciato alle cattive abitudini. Le avevano modificate, a volte per legge. C’era stato l’immane lavaggio, non si sentiva ancora profumo di bucato. Da quel  1992, che fu un Quarantotto, accaddero cose spiacevoli in un frenetico e spiazzante scambio di maglie. In troppi casi, giù la toga nera del giudice, su la grisaglia griffata del ministro, del parlamentare, dell’ex imparziale che diventava parziale in un governo o nel parlamento. E prese avvio la pantomima: bisogna riformare la giustizia. Chi se lo ricorda il numero dei tentativi falliti fin qui? Ma soprattutto chi è in grado di individuare il varo di una formula sicura, comprensibile, quasi matematica, per soddisfare le vere domande del popolo, in nome del quale, vedete un po’, i tribunali celebrano le loro liturgie. Queste le richieste: tempi brevi nei processi, meno forma più sostanza, certezza non solo nell’esecuzione di una  condanna penale, anche della risposta chiara, esigibile a una sentenza civile. Ci viene in mente il magistrato Rosario Livatino, proclamato santo da papa Francesco a causa del martirio subito per la sua sofferta irreprensibilità. Lui diceva che compito del giudice non era amministrare giustizia, bensì “renderla”. La differenza non è semantica: dietro il rendere, cioè il restituire, c’è la consapevolezza di un mestiere che impegna più l’anima, del  cervello. Veniamo a noi, lasciando da parte anche qui l’ingenuità: che governo di destra sarebbe quello di Giorgia Meloni se non si levasse dalla scarpe il sassolino più fastidioso, la separazione delle carriere? A parte che l’argomento piace anche a certa sinistra moderata, l’idea di un premier presidenzialista calza a pennello con la revisione costituzionale dei meccanismi della magistratura. Due squadre nella stessa federazione, il Csm, ma iscritte a campionati diversi: pubblici ministeri distinti dai giudici, chi fabbrica accuse, chi forgia sentenze. Accettabile? Sicuramente accettato in tante democrazie. Due-tre generazioni sono cresciute nel segno e nel mito di Perry Mason avvocato della difesa contro un suo simile sempre indipendente ma patrono dello Stato. Ci si potrebbe mettere la firma se ciò servisse a cancellare l’onta del Paese che non arriva mai a una verità, la menzogna del tre gradi di giudizio, spesso sono cinque-sei, la vergogna delle prigioni affollate non di rei certificati, ma di detenuti in lista d’attesa. I veri errori giudiziari stanno nelle pene scontate da imputati, non da condannati. E lo chiamano garantismo. Dunque, la Meloni fa quello che ha in testa e sa che un premier (o un premierato) dopo un anno-due cuoce già a fuoco lento. I suoi ministri quel fuoco dovrebbero contenerlo, non soffiarci sopra. I costituenti, reduci da una dittatura e da una monarchia, si preoccuparono plausibilmente di fare in modo che nella nuova Italia nessuno comandasse troppo. Ora, la magistratura è fatta di uomini e donne che in un salotto possono manifestare antipatie per Salvini oggi, per Renzi ieri. Che fai, li cacci? – parafrasando la celebre battuta di Fini. Che fai, li sottoponi a perizia psichiatrica? Evidentemente no. Puoi sospettare un progetto eversivo contro un governo di destra. Me delle due l’una: scopri una buona volta il complotto recidivo di alcune toghe facinorose (siamo stati il Paese della P2) o vai avanti con la manfrina del cane e del gatto. Alle istanze di Berlusconi, che ha governato 3.393 giorni, la gente si era rassegnata o adattata. Alle aspettative della Meloni “che non accetta ricatti”, si fatica ad accreditare altri quattro anni di potere se non mette in riga i suoi chiassosi ciambellani di corte.

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