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Nell’inferno degli sbarchi

  • Gianni Spartà
  • 04/09/2023
  • 0

Estate a Lampedusa

“Non lo so, non lo so da dove arrivasse. Era stremata, una donna sulla cinquantina: faticava a reggersi in piedi sul molo dopo essere rimasta accovacciata per giorni in una stiva. Spingeva una carrozzina con sopra un ragazzo, suo figlio credo. Ci ha subito detto che era cieco e che doveva subire un trapianto. Per questo se l’era portato appresso eroicamente su quel barcone, una carretta del mare”. Luisella Daverio, classe 1957, storica infermiera ai Servizi psichiatrici, volontaria alla mensa della Brunella: chi non la conosce a Varese? La Croce Rossa ha avuto bisogno di lei quest’estate e le ha chiesto di andare laggiù, a Lampedusa, nell’inferno degli sbarchi e dei morti annegati. Lei è partita. E questa è una storia da raccontare senza illudersi che qualcosa cambierà mai in quel tratto di mare tra Africa e Italia diventato un ossario. “Irreversibile tragedia”, il suo commento. Succede, ma non a tutti, che si senta il dovere di correre dove bisogna salvare vite. Luisella rispose all’appello dopo lo tsunami in Sri Lanka nel 2004. Lampedusa le è parsa dietro l’angolo. Ma per quanto ha visto in diciotto giorni dal 27 luglio al 14 agosto può dire che non c’è una classifica della disperazione. Lei faceva la spola da dove arrivava l’Sos, quasi sempre di notte, da un punto dell’isola, al centro di raccolta di profughi da medicare, sfamare, rivestire, radunare sotto alberi d’ulivo in quello che chiamano hot spot. Ma in questi mesi è un girone dantesco, un pronto soccorso nel quale  attendere il trasferimento per nave a Porto Empedocle, a Napoli, a Genova. Descrizione de cibo preparato nella grande cucina del centro: spezzatino, piselli, pasta, pentoloni nei quali bisognerebbe immergere una ruspa, non un mestolo. Le emergenze sanitarie affrontate con i mezzi di un ospedale da campo consistono  in crisi respiratorie, ferite nel corpo e nell’anima e per alcuni dialisi, trasfusioni, interventi chirurgici. Arrivavano gli elicotteri in questi casi. Poi ci sono i desaparecidos: una barca è arrivata con a bordo quattro persone, ne erano partite quarantacinque. Sono morte annegate, sono finite nell’immenso cimitero in fondo al Mediterraneo. Questa ecatombe dura da almeno quindici anni, a memoria. I lampedusani meriterebbero il Nobel per la pazienza, la rassegnazione, il sacrificio, la  pietà, la trasformazione da paradiso delle vacanze a ospedale da campo. Nelle vene essi hanno il vaccino del dolore. Ma devono pur vivere, a volte sorridere ai tanti turisti che, mettendo piede a casa loro, non vogliono sapere nulla del rovescio della medaglia, cioè di quella prigione dei migranti ben nascosta su una collina. Loro chiedono come si arriva alla Spiaggia dei Conigli. Al massacro pensano per un attimo quando il taxi e i pullman passano davanti a un ammasso di barconi sotto sequestro ai lati della strada che dal porto conduce agli alberghi. Dopo la Porta d’Europa innalzata da Mimmo Paladino in riva al mare di Lampedusa, questa catasta di legno cotto dal sole è il vero monumento alle drammatiche vicende di migliaia di persone che all’Europa hanno creduto e sono morte. Il gesto di Luisella, la sua estate trascorsa tra i miserabili, dicono che la speranza vive. A stento, ma vive. Il mondo è ingiusto, lo sappiamo, le cerniere tra povertà e ricchezza, tra pace e guerra, salgono e scendono a modo loro sui pantaloni della storia. Ma quel che avvilisce di fronte al massacro dei migranti è il silenzio degli innocenti. L’Europa a Lampedusa non c’è, non c’è nemmeno l’America. C’è ’Italia con le sue politiche contraddittorie. E c’è papa Francesco che facendo laggiù la prima visita del suo pontificato volle dare un segnale autenticamente cristiano purtroppo inascoltato dai potenti. L’Italia paga il prezzo di un incredibile paradosso: investe risorse per accogliere e rimpatriare poveri disgraziati che in massima parte avrebbero voluto dirigersi altrove.      

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