Blog



Il Rieccolo

  • Gianni Spartà
  • 24/03/2023
  • 0

Ponte sullo Stretto

Il Ponte sullo Stretto è l’opera più promessa d’Italia. Hanno provato a costruirlo a parole Mussolini, Forlani, Craxi, Berlusconi, Renzi, Conte, anche Draghi. Ci riuscì nei fatti un console romano del 251 avanti Cristo, Lucio Cecilio Metello: doveva traghettare elefanti da Cariddi a Scilla, stese sul mare una passerella di barche e botti e subito dopo il transito la rimosse. Ci riuscirà ora Giorgia Meloni cedendo alla conversione “pontificale” di Salvini? Spavaldamente contrario fino a qualche anno fa, oggi Matteo non parla d’altro. L’altra sera a Porta a Porta ha rispolverato il glorioso plastico del manufatto. Lo stesso mostrato da Berlusconi nel 2001, sempre da Vespa.  Uno sguardo dal Ponte mai nato. I  lavori, udite udite, sono già cominciati. Lo raccontano al passato gli abitanti di Villa San Giovanni ricordando i ventisei milioni di euro spesi nel 2012 per abbassare di un chilometro verso il mare la linea ferroviaria e trascinarla sotto una mostruosa galleria costruita apposta. Bisognava fare spazio a uno dei due piloni di sostegno, alto quattrocento metri, pesante 50mila tonnellate, dieci volte la Torre Eiffel. Dieci anni dopo abbiamo la variante Cannitello (nome della località calabrese), centinaia di carotaggi sulle due sponde, il progetto di fattibilità cestinato dal governo Monti.  Se si ricomincia, si ricomincia da qui, cioè dai ventisei milioni: briciole nel quadro complessivo dei costi in quarant’anni di partenze false, dubbi, perplessità, paure. Siamo in piena zona sismica, lo Stretto ha venti e correnti sottomarine capaci di bloccare navi e petroliere. Il “salvo intese” con cui Meloni ha riaperto mediaticamente i cantieri significa qualcosa. Può riguardare la sostenibilità finanziaria, i problemi tecnici non ancora risolti e pensando male anche gli interessi di due soggetti che solo le anime belle possono ignorare: mafia e ‘ndrangheta. Come la penseranno? Che cosa chiederanno? Il movimento di terra e cemento, di soldi e braccia è spaventosamente colossale. Un Expo moltiplicato per cento in mano al consorzio internazionale Eurolink.  Il quale reclama indennizzi qualora non se ne facesse nulla. Altra insidia non piccola.E’ scontato che l’opera rechi giovamento non solo al Sud ma al Paese intero. E’ altrettanto vero che il mirabolante Ponte sullo Stretto sia l’occasione per ammodernare infrastrutture carenti.  Mai le Ferrovie investiranno nell’Alta Velocità, che oggi si ferma a Salerno, come Cristo a Eboli, se lo scopo è arrivare a Reggio Calabria, lasciando fuori dal gioco la Sicilia, piattaforma  logistica ideale per traffici navali via canale di Suez tra Africa, Asia e Nord Europa.  Il gran lombardo Giuseppe Zamberletti spese gli ultimi gli ultimi anni da presidente della società Stretto di Messina, mix di capitali  pubblici e privati, Stato e grandi imprese. Diceva che l’Italia doveva battersi per le Tav del profondo Nord, ma anche per trasformare la Sicilia da isola a penisola. Egli incassò male la cancellazione del progetto e la liquidazione dell’ente che lo doveva realizzare. Non pensava alle sue tasche, ma a quarant’anni di risorse sprecate. Il no-Ponte di Monti gli arrivò tra capo e collo mentre  era in trattativa con una delegazione di advisor cinesi spediti in Italia per assicurarsi l’affare Stretto di Messina. Pechino avrebbe fornito ingegneria, materie prime, specialmente acciaio e quant’altro pur di contare, in un’ottica globale, su quei tre chilometri di binari strategici. Lungo questa via sospesa sul mare container scaricati dalle navi sarebbero arrivati con l’alta velocità ai porti di Rotterdam ed Helsinki. Accadeva in un’altra epoca. Oggi sul Ponte torna a metterci la faccia l’Italia. Se la perde un’altra volta è imbarazzante.  

Aggiungi Commento

Nome
Email
Testo Commento (evidenzia per modificare)

(0) Commenti