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La Lega di Cimabue

  • Gianni Spartà
  • 17/06/2022
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Fai una cosa ne sbagli due

In un partito normale, non marxista-leninista come lo definiva negli anni ’90 Roberto Maroni, gli iscritti avrebbero montato una forca davanti alla sede della Lega in via Bellerio e fissato l’ora dell’esecuzione. Invece siamo pronti a scommettere che non succederà nulla. Cimabue “fai una cosa e ne sbagli due” sta già cercando di mettere il cappio al collo di qualcun altro. Se ne trova sempre uno. Fosse anche il candidato sindaco di Cassago Magnago che tra quindici giorni rischia di fare come gli americani a Saigon e a Kabul: prendere la bandiera del Carroccio, piegarla in quattro, metterla mette sottobraccio, sparire. Non in elicottero. E pazienza se l’anagrafe di quella cittadina contempla tra i nativi il nome di Umberto Bossi. Capirai: la balena padana s’è arenata sulle spiagge di Varese, mesi fa, di Verona e Lodi nell’ultimo sciagurato weekend (ma ha vinto a  Lissone), vedete voi che colpa ne avrebbe l’ultimo dei mohicani se la macchina del capo ha un buco nella gomma. Per il disastro nazionale dei referendum-giustizia, per la pazza idea di andare a Mosca (a fare?), per lo sgretolarsi inesorabile del voto verde in territori simbolici dove un partito radicato, il più vecchio della Seconda repubblica, fa comodo ai ceti produttivi, ora orfani. Già: non abbiamo ancora pronunciato il nome del protagonista di questa ritirata di Russia, similitudine irriverente, scusate. Lo zar Matteo è insostituibile a quanto pare. C’è il mistero Giorgetti, non da oggi. Lui impreca in privato contro le neuro-sbandate del leader, ma se sente ipotizzare un “Salvinicidio” nella base parlamentare in fermento, esce da Montecitorio e si perde nei vicoli di Roma, zona Pantheon, dove non era raro incontrarlo, senza scorta, quando studiava da gran cerimoniere di affari istituzionali, ramo economa e finanza. Si guadagnò un posto tra i dieci saggi nominati anni fa da Napolitano, è arrivato Draghi e pare sia l’unico a dargli del tu. Ma di pilotare il Carroccio non ne vuole sapere. E neanche di candidarsi a governatore della Lombardia quando glielo proposero. C’è poi il rebus Zaia, anch’egli recalcitrante: chi glielo fa fare di mettersi alla guida della Lega, adesso, poi, in piena frenesia organizzativa delle olimpiadi invernali Milano-Cortina? E c’è una terza carta nascosta o immaginaria, Massimiliano Fedriga, apprezzato governatore del Friuli Venezia Giulia: è giovane, posato, vergine sul piano ministeriale, sostenuto da deputati e senatori quarantenni, ben visto nei piani alti. Ma si torna al via come nel gioco dell’oca: il segretario che per andare al Sud, si è fatto pignorare il Nord dalla Meloni, il suo incubo, non si schioda e non si farà schiodare. Lui col residuo Carroccio, Giuseppe Conte col desaparecido Movimento Cinque Stelle è come se avessero deciso di imitare Castore e Polluce: finire insieme, a costo di rinunciare al privilegio dell’immortalità in quanto figli di Zeus. Il governo rischia con a bordo due marinai ammaccati? Questo  preoccupa gli italiani assediati dagli effetti collaterali della guerra tutt’altro che agli sgoccioli. Draghi si è ormai abituato ad avere una maggioranza un giorno sì un giorno no: la faccia non l’ha persa lui in questi giorni. Il fatto è che per l’autunno si prevede tempesta economica e non si esclude un colpo di coda della pandemia. Ma la legislatura durerà fino al termine perché la politica è sgangherata ma non al punto di suicidarsi affrontando elezioni anticipate. Nel  centrodestra, l’unica che avrebbe interesse a sparigliare le carte è Giorgia Meloni. Lei una coalizione di riferimento continua ad averla e ne è la nuova leader. Il centrosinistra è il primo partito d’Italia, dice Letta. Che però una coalizione non ce l’ha più dopo il crollo Cinque Stelle. Ogni paragone con Mancini, un anno fa campione del calcio europeo, oggi umiliato dalla cinquina contro la Germania è puramente casuale.

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