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Che sia l’ultima "chiama"

  • Gianni Spartà
  • 26/01/2022
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Caos attorno al Colle

L’elezione del presidente della Repubblica è come l’avvistamento della cometa di Halley: si ripete periodicamente a distanza predefinita. Sia nei palazzi, sia nelle specole hanno tutto il tempo di prepararsi all’evento eccezionale. Ma gli astronomi scrutano l’immensità dell’infinito,  i partiti il retro della loro bottega ed eccoci qua: a Montecitorio è come se avessero saputo solo lunedì che il Big Ben del Quirinale ha detto stop. E che l’orologiaio ha deciso di scendere dalla torre. Ci risalirebbe dopo una standing ovation a Camere riunite? Tre quarti d’Italia e anche di Parlamento se lo augurano. Non per umiliare Draghi, ma perché ci vorrebbero Moro col suo acume, Berlinguer con la sua lealtà, vogliamo aggiungere Almirante con la sua serietà,  per districare un insidioso corto circuito tra Colle e Palazzo Chigi. E oggi si dispone dei loro fratelli poveri. Nessuno si offenda. Il bipolarismo è finito, tutti in Parlamento sono minoranza, c’è un precario pentapartito al governo. La situazione non è migliorata da quando Giorgio Napolitano concesse il bis. Sergio Mattarella, che è anche più giovane, difficilmente potrebbe negarsi di fronte a un Sos istituzionale. Che forse non ci sarà, visto quanto accaduto ieri, ma resta l’urgenza di chiudere entro venerdì. Ci sono lampi di una nuova guerra fredda ai confini tra Russia e Ucraina, Biden chiede se ci schiereremo con l’America in caso di invasione, la Borsa è depressa, il Covid no: ci vuole un bel coraggio a dilungarsi in riti bizantini, resipiscenze tardive, tirate di giacca per conoscere la lista dei ministri che verranno. In attesa che muti il vento, i leader appaiono sherpa all’ombra dell’altare della patria chiamato Draghi. Si veda lo sperticato elogio del New York Times. Oggi il presidente della nostra Repubblica non una bandiera che sventola tra visite di scuole e tagli di nastri. Per esercitare l’alto incarico bisogna essere allenati a utilizzare nuovi ruoli, in qualche caso di supplenza. Chiediamoci chi ha spedito a Chigi, da Monti in avanti, gli ultimi sei o sette premier scegliendoli fuori dal Parlamento. Forza Italia, finita la fiction Berlusconi, si scopre senza le capacità federative dell’ex Cavaliere e con le scorte vuote di personaggi in grado di spaccare, pur essendo di qualità. La Lega di Salvini si sostituisce all’alleato e subisce il velato corteggiamento persino del Movimento Cinque Stelle. La Meloni abbozza e vuole nuove elezioni. Poi c’è Letta sicuro che alla fine prevarrà Draghi. Il segretario del Pd dice “va bene” ai tre preferiti del centrodestra, rispettabili pedoni sulla scacchiera delle trattativa con Salvini. Ma pensando al domani, capisce che nessun presidente del Consiglio sarà in grado di dare garanzie all’Italia, all’Europa, ai mercati come fa l’ex banchiere dal febbraio scorso seguendo le profetiche istruzioni profetiche di Mattarella. In tutto ciò, occhi a quel nome, Paolo Maddalena, dietro al quale si celano le bramosie centriste assecondate da un gruppo misto mai così affollato, per diserzioni, cambi di casacca, idee stravaganti da mettere a profitto come l’uscita dalla Ue. Borsino: Draghi a parte, Casini non solleva più entusiasmo (fidiamoci della correzione di tiro di Bossi); Cartabia incarna il tifo per una svolta al femminile, ma più per Chigi, a questo punto, che per il Colle e c’è un signore, a questo proposito, che da buon figlio di pescatore aspetta di tirare in barca le reti: Giancarlo Giorgetti, l’unico ministro, dicono, in tale confidenza con Draghi, da dargli del tu. Pensierino della sera: sia l’ultima volta che l’elezione del presidente della Repubblica soggiace a giochi di potere. Questo compito spetta ai cittadini. Per interpellarli ci liberemo di una parola indigesta, “chiama”, sostituendola con la popolare “chiamata”.              

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