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Due paroline di troppo

  • Gianni Spartà
  • 13/11/2021
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Salvini premier

Indimenticabile l’alta concentrazione di telecamere e antenne paraboliche ai Giardini Estensi di Varese il 13 dicembre del 1992. Anche dall’America seguivano l’ingresso nell’orbita politica italiana di un movimento devoto al dio Po dopo che altri dei, sacri e profani, erano stati decimati da una pestilenza giudiziaria. Ventinove anni dopo, a dispetto degli scettici dell’epoca, la Lega c’è ancora anche se ha distrutto a una a una tutte le sue coreografie. Indipendenza della Padania? Evaporata. Prima il Nord? Slogan in soffitta. Macroregione lombardo-veneta? Soffocata nella culla. Oggi governa a vista Capitan Matteo che ha imboccato l’Autostrada del Sole diretto a Sud, ma ha perso la bussola, i voti e i sindaci sulla Pedemontana Varese-Bergamo e ha deragliato sulle linee dell’Alta Velocità tra Milano e Torino. Che cosa si fa in questi casi? Beh, innanzitutto si tolgono dal logo del Carroccio due paroline di troppo: “Salvini premier”. Non ci crede più nessuno, nemmeno lui. Poi si indice un bel congresso per esplorare le convergenze parallele, dicevano i democristiani, per decidere che cosa fare e con chi, annotano gli osservatori al tempo del draghismo.  Interrogato negli anni ’90 sulla creatura politica di cui Bossi era il padre e lui la mamma, Roberto Maroni  soleva rispondere: la Lega è un partito leninista, uno comanda, tutti gli altri eseguono il progetto. Aveva ragione. Salvini ha appena sibilato: “Ascolto tutti, decido io. Punto”. Già, ma il problema è questo secondo molti.  In Italia vantiamo storie di grandi dualismi: Coppi e Bartali, Togliatti e De Gasperi, De Benedetti e Berlusconi, Eduardo e Peppino. Se pensiamo a Matteo Salvini e a Giancarlo Giorgetti i paragoni sono difficili ma buttiamo là: Andreotti ed Evangelisti, Tognazzi e Vianello. I due si stanno sulle scatole a vicenda e  devono apparire congiunti. Solo che uno fa il filo a Orban, l’altro a Ursula von der Leyen; uno fraternizza con Draghi, l’altro con Bolsonaro; uno vede le luci dell’Europa, l’altro gli sbarchi dall’Africa. Che oggi gli servono per fare le pulci alla Lamorgese. Duro da digerire lo sfratto dal Viminale. Con questo stato di cose bisogna mettere a fuoco la strategia leghista da qui al 2023 (la legislatura non finirà prima: troppi posti in pericolo con un Parlamento quasi dimezzato) e si deve fare rete col meglio in circolazione per non sbagliare la partita più importante: l’elezione del  prossimo presidente della Repubblica. Qui nessuno può negare che Giorgetti non ci saprà fare con la stampa - lo ha appena ammesso - ma nelle alte sfere delle istituzioni si muove come le anguille che pescava suo padre Natale nel lago di Varese. Che sia l’unico leghista a dare del tu a Draghi, di cui era il cocco anche prima di entrare nel suo governo, poco conta. Che già Giorgio Napolitano lo avesse inserito in un  gruppo di dieci saggi ai tempi della transizione Berlusconi-Monti, vuol dire qualcosa. Viene fuori il profilo del collaudato custode di segrete cose e del laconico plenipotenziario  sul fronte di  incarichi e nomine. L’accordo tra l’uomo di Cazzago Brabbia e il segretario che non ne sopporta l’ombra potrebbe essere il seguente: Salvini insegna a Giorgetti come si tengono a bada giornali, tv, social e Giorgetti insegna a Salvini come si fa politica. Funzionerebbe.  

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