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Voti e manette

  • Gianni Spartà
  • 29/05/2024
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Giustizia e politica

Non è giustizia a orologeria, è un rumore di fondo ininterrotto, adesso itinerante: l’attenzione non è concentrata sulla Milano da bere, si spalma sui voti comprati a Bari e sulle luci del Porto a Genova. Poche varianti, analoghe cortesie collaterali: nel pacchetto della corruzione, massaggi, crociere e champagne. Ma il punto è un altro: c’è stato un tempo, già repubblicano ovviamente, in cui politica e magistratura si rispettavano di più pur separate in casa. Prima, mai un capo di governo sarebbe stato informato dal Corriere della Sera d’avere un appuntamento in Procura, qualcuno gli avrebbe fatto una telefonata, non dal tribunale, ovvio. Senza eradicare per sempre la pianta dell’intrallazzo, il 1992 con Mani Pulite ha cambiato le relazioni tra i poteri. La storia dell’orologio, cioè di arresti calcolati sui tempi delle urne, oggi non tiene più. Tra politica e magistratura non battaglie sporadiche, ma guerriglia continua.  Nemmeno è vero, però, che le inchieste giudiziarie spostano voti, fanno cambiare idea al cittadino. Chi le subisce vince le elezioni, chi le cavalca le perde: è dimostrato. Tutto scorre. Se non parlassimo di cose serie, ci sarebbe da parafrasare Giulio Andreotti: il processo è come il potere. Logora chi non ce l’ha a tutti i livelli: sindaci, governatori, eurodeputati. E chi vota (uno su due non lo fa più) dà per scontato che il settimo comandamento è un optional, che la politica e gli affari sono un mulino, chi lo frequenta si infarina, che l’abuso d’ufficio è come il respiro: uno al secondo nella pubblica amministrazione.  Per dolo o colpa, per soldi o protervia. Facendosi largo in questa giungla, l’elettore superstite difende finché può il suo diritto-dovere senza farsi influenzare. Se è progressista non vota Vannacci, se è conservatore non si appassiona per la corte chiozzotta attorno alla Schlein. Ma parliamo della scemata fiducia nel potere giudiziario che non è più mitizzato un drago vendicatore. Troppe montagne hanno partorito piccoli sorci e ciascuno elenca i suoi “martiri”. Mi vengono in mente l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, costretto a lasciare il Campidoglio, poi scagionato quasi con le scuse e il presidente dell’allora Finmeccanica Giuseppe Orsi arrestato per una tangente mai provata. Fu un duro colpo, per la reputazione del Paese, la lunga detenzione di un manager pubblico d’alto livello. E ne soffrì rumorosamente la credibilità delle toghe. Non di tutte, intendiamoci. Ma l’errore fa più chiasso della virtù. Si esagera con le intercettazioni oltre tutto divulgate urbi et orbi? Sì, il troppo storpia. E la stampa registra ciò di cui viene in possesso non per intercessione dello spirito santo. Quei colloqui telefonici, indispensabili agli investigatori moderni, ma esibiti come trofei, creano suggestioni contrastanti sui non addetti ai lavori. Politica e giustizia: dovrebbero essere comparti autonomi e da un decennio in qua s’intrecciano, si confondono, si equivalgono, si sommano e si annullano. Una legge che appare diseguale per tutti, che muta nelle forme, nei tempi e nei contenuti a seconda della geografia, è una legge socialmente dannosa. I processi durano troppo a lungo, in molti casi si estinguono prima della sentenza. Nelle more, gogna e impunità marciano unite con il rischio che l’intreccio innaturale tra chi applica le norme e chi le fabbrica   sovverta le regole del gioco. D’altra parte siamo l’unico Paese al mondo dove magistrati che devono tutto alla toga sono passati al laticlavio di leader di partito con imbarazzante disinvoltura.

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