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Giustizia, il vero nodo

  • Gianni Spartà
  • 14/07/2023
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L’incertezza del processo

Che barba, che noia. Se è lecita un’aggiunta, che pena. Parodia di una frase di Woody Allen: Dio è morto, Berlusconi pure e io non mi sento troppo bene. Il Foro italiano continua a essere luogo di imboscate come un saloon del vecchio West. Da una parte le toghe, dall’altra la politica, in mezzo il  baccano mediatico. A volte pilotato. Attualmente c’è una ministra talmente allergica all’informazione di garanzia da negare d’averla ricevuta e c’è un’alta carica dello Stato travolta dalla denuncia di stupro contro suo figlio: speculare sulle disgrazie familiari è da fetenti,   ignorare il punto di vista della presunta vittima solleva giustificate reazioni di genere. Ma negli stessi giorni un governatore di Regione incassa il proscioglimento, non a esito di dibattimenti in aula, bensì della chiusura di un’indagine e il fatto non inconsueto nei tribunali sembra il vero paradigma del disastro giustizia: ci sono voluti tre anni, quanto ha impiegato la sanità pubblica ad arginare la tragedia più grande del nostro tempo, il Covid.  E’ accaduto perché l’imputato era eccellente e perché proprio vicende legate alla pandemia, tema politicamente sensibile,  erano l’oggetto delle verifiche giudiziarie?  No, è accaduto perché questo è l’andazzo. Diversamente le trombe del sospetto e del dileggio non suonerebbero invano. La giustizia è lenta e inefficiente: abbiamo una Costituzione attenta ai suoi valori ma nella realtà i guasti non sono mai stati eliminati. In più i giudici hanno messo il naso negli affari dei partiti (correva l’anno 1992) e da allora non c’è stata pace. Chiunque abbia tentato una riforma ha fallito o è stato messo a terra come fa il terzino col centravanti lanciato a rete. Ci vuole riprovare Nordio, ex magistrato, che sa dove mettere le mani, e c’è una relativa stabilità di governo, finché dura: adesso o mai più cancellare l’insostenibile incertezza del diritto e affrontare una volta per tutte il tema della separazione delle carriere. Succede troppo spesso che a un’imputazione rumorosa segua un’archiviazione silente, che un pubblico ministero perda la causa e il giudice la vinca. Possono far parte della stessa squadrai requirenti e  giudicanti? Le fiction televisive d’oltre oceano solennizzano la formula d’apertura di un processo col rito anglosassone: lo Stato di New York contro il signor Tal dei Tali. Il tramite è un procuratore estraneo al sistema giudiziario, un avvocato pubblico che se la vede con un collega privato sotto lo scranno di “Vostro onore”. Il quale di tanto in tanto convoca le parti ai suoi piedi e cerca di suggerire una rotta a seconda dell’idea che s’è fatto. Siamo convinti che non perderebbe un’oncia di dignità e di prestigio il magistrato investigativo separato dal collega con l’onere del giudizio. Ci sarebbe più chiarezza tra persone che fanno lo stesso mestiere, chi non addosso una toga, chi infilato in una divisa militare. Spesso i contrasti “di casta” hanno mandato all’aria inchieste importanti, ad esempio sulle stragi di terrorismo negli anni passati. Le resistenze al cambio di passo sono di ordine corporativo, quindi insondabili. Le discussioni spuntano e subito tramontano alla vigilia di referendum mai andati in porto per diserzione delle urne. L’ultima volta, due anni fa, la gente ha visto apparire e sparire l’unico quesito di un certo interesse popolare. Quello sull’obbligo di indennizzo in caso di sentenze sbagliate, ma a carico delle toghe. Come accade per tutti i professionisti: medici, avvocati, ingegneri. Da qui la sfiducia. Sui muri del tribunali c’è scritto: in nome del popolo italiano. Ma risulta difficile rappresentare e quindi  farsi carico di una giustizia che manda all’esterno segnali di colpevolezza a proposito di fatti gravissimi e poi li ribalta radicalmente in corso d’opera. A pensarci bene la soluzione è disegnare un triangolo i lati uguali: alla base il pubblico ministero e la difesa,  stessa distanza del giudice che però sta al vertice. Andrebbero meglio le cose se fossero certificate? Leggiamo la  Costituzione all’articolo 111: il processo si svolge nel contradditorio tra le parti, in condizione di parità, ma solo il giudice è “terzo e imparziale”.

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