Mi licenzio da solo
- Gianni Spartà
- 28/04/2023
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Grande fuga dal lavoro
Dicono sia colpa (o merito?) dello smart-working che ha rotto equilibri, incoraggiato sfide, affrettato riflessioni perché di vita ce n’è una sola. Se la posta in palio sono milleduecento euro al mese per nove ore di lavoro al giorno, figli parcheggiati tra scuola e nonni, il rischio è accettabile. Nei primi nove mesi del 2022 lo hanno accettato un milione e seicentomila italiani: sono andati dal principale e si sono licenziati da sé consegnando la lettera di dimissioni. Senza avere in testa una alternativa? Ancora non si può saperlo. Sociologi e psicologi studiano un fenomeno imprevisto, imprevedibile, non solo italiano o europeo, esteso in tutto l’Occidente, uomini e donne coinvolti nella stessa misura. E per quanto paradossale, questa sorta di serrata o di sciopero convive con livelli sempre elevati di disoccupazione non volontaria e disperata. E’ ragionevole escludere il salto nel buio: un paracadute ci dev’essere. Ciascuno racconta la sua storia originata durante la pandemia: ho cambiato azienda, ho cambiato mestiere, mi sono messo in proprio. Basta con un lavoro purchessia, ci sono valori più importanti. Ore passate non in ufficio ma a casa davanti al video di un computer devono aver alzato l’asticella dell’ingegno collettivo e trasversale. Chi cerca trova, figuriamoci con l’universo della rete a portata di mouse. Non mancano gli eccentrici: ho visto un tipo girare per la città con una scritta sul parabrezza dell’auto, Muratore Edile, telefono xzy. L’aggiunta superflua della parola edile sembra un punto esclamativo. Stanco di cantieri scelti da altri, il magutt si è promosso capomastro di se stesso. Moltiplicate il caso per le decine di lavori, non solo manuali, avrete spiegazioni che migliaia di convegni sull’occupazione giovanile non hanno dato. Le danno all’improvviso gli effetti collaterali del Covid che rispediscono al mittente rimproveri e analisi anche paludate. I nostri ragazzi non debbono essere “choosy”, cioè troppo esigenti quando cercano un impiego, diceva la ministra Fornero due lustri or sono. Duri i cinesi, seconda economia del mondo: bisogna che i giovani si tolgano la giacca e accettino di stringere bulloni o coltivare la terra. Un milione e seicentomila abbandoni spostano il problema su imprese già a corto di personale in diversi settori produttivi. Gli immigrati dunque fanno comodo. Vero che nessuno è insostituibile, ma non si fabbrica un operaio specializzato dall’oggi al domani e per le stesse ragioni non si inventa un quadro. Alla vigilia del Primo maggio, festività meno divisiva del Venticinque Aprile, la “grande fuga dal lavoro” merita approfondimenti perché ne sono artefici i millenians, cioè i nati nel primo ventennio del ventunesimo secolo. I loro genitori e nonni hanno avuto il posto fisso, possibilmente a vita, e lo stipendio garantito da aumenti periodici dei minimi tabellari: i cosiddetti scatti di anzianità. Oggi tanti giovani ignorano l’esistenza del tipo di contratto col quale sono stati assunti da aziende individuali o piccole. Ma i nuovi arrivati mettono paletti: pretendono dignità, niente ricatti, no alla dequalificazione. Ed ecco quella che gli americani chiamano Great Resignation con motivazioni etiche, sociali e con esempi che vengono dall’alto come annota un osservatore attento, lo studioso Claudio Lucchini. Il ministro della Difesa finlandese si è preso un congedo di paternità di tre mesi per stare con la famiglia. In Scozia la premier ha annunciato le sue dimissioni con un laconico: “Viene il tempo di fare altro”. In Nuova Zelanda il capo del governo ha dichiarato “Non ho più le energie necessarie” prima di andarsene. E se fossimo alla vigilia di un cambio di civiltà?